venerdì 30 gennaio 2009

Tre minuti contro il diabete


Tre minuti contro il diabete
Uno studio promuove l’esercizio intenso

Tre minuti di sport due volte alla settimana sono sufficienti a migliorare il metabolismo del fisico e contrastare il diabete. Unica condizione è che l’attività, pur di breve durata, sia intensa al punto da consumare gli zuccheri in eccesso presenti nel sangue e metterli fuori gioco. La notizia viene dagli esperti dell'università di Heriot-Watt di Edimburgo (Scozia) per mezzo di uno studio pubblicato sulle pagine della rivista “Bmc Endocrine Disorders”.

Insomma, non ci sono più scuse neppure per chi proclama di trascurare lo sport per mancanza di tempo. Il coordinatore dello studio, James Timmons, spiega: "Quel che abbiamo trovato è che anche svolgendo pochi, ma intensi esercizi, della durata di 30 secondi circa ciascuno per una serie di tre minuti, si migliora sensibilmente il metabolismo in sole due settimane".



Le attuali linee guida, invece, suggeriscono tabelle di marcia da stakhanovista, ovvero attività fisica aerobica da moderata a intensa per molte ore alla settimana. I risultati dello studio, destinati a rallegrare i pigroni e quanti si scoraggiano davanti alla prospettiva di impegni troppo gravosi, è' stata condotta su un gruppo di 16 giovani uomini, piuttosto fuori forma, ma sostanzialmente sani, sottoposti a quattro sessioni di cyclette da 30 secondi ciascuna, diluite nell'arco della giornata, due volte alla settimana. E dopo 15 giorni ha riscontrato un miglioramento del 23% nell'efficacia con cui il loro organismo impiegava l'insulina per assorbire il glucosio nel sangue. "Un risultato - assicura Timmons - non molto diverso da quello che si ottiene allenandosi duramente per ore e ore ogni settimana".

L’importante, prima di sottoporsi ad un esercizio fisico intenso, è verificare di essere in condizioni generali di buona salute e avere il via libera del medico curante.



http://www.tgcom.mediaset.it/tgmagazine/articoli/articolo440123.shtml

Sclerosi multipla: il trapianto di staminali "blocca" i deficit neurologici

Sclerosi multipla: il trapianto di staminali "blocca" i deficit neurologici

di stefania mengoni Pensiero Scientifico
In pazienti affetti da sclerosi multipla "remittente-recidivante" il trapianto autologo non mieloablativo di cellule staminali può evitare la progressione dei deficit neurologici o addirittura renderli reversibili. È quanto sostengono gli autori d un nuovo studio pubblicato sull'ultimo numero di The Lancet Neurology.



"Nelle fasi iniziali della malattia il 70-80 per cento dei pazienti è affetto da questa forma intermittente di sclerosi multipla", spiegano i ricercatori. "Le ricadute, o riacutizzazioni, sono ben distinte dai periodi di remissione, durante i quali i sintomi regrediscono totalmente o parzialmente. Poi, nel giro di 10-15 anni dall'esordio, gran parte dei pazienti sviluppa la forma secondaria progressiva, con inesorabile perdita dell’attività neurologica". Le terapie farmacologiche a oggi disponibili per contrastare i sintomi neurologici, tuttavia, non sempre danno i risultati sperati.

Il team di ricercatori, guidato da Richard Burt, ha quindi sottoposto 21 pazienti "no-responder" a trattamento con interferone-beta al trapianto autologo non mieloablativo di cellule staminali. La tecnica consiste nel rimuovere, in regime controllato, i linfociti che aggrediscono il sistema immunitario e danneggiano il Sistema Nervoso Centrale e procedere, poi, a "ricostituire" il sistema immunitario con cellule staminali emopoietiche prelevate dal midollo osseo del paziente stesso. A un follow-up medio di 3 anni l'81 per cento dei pazienti era migliorato di almeno un punto nella "Scala delle disabilità", nel 100 per cento dei pazienti si riscontrava un arresto della progressione dei deficit neurologici e la tollerabilità al trattamento era molto soddisfacente. "Sebbene si tratti di uno studio ancora in fase I/II, i risultati sono estremamente incoraggianti", concludono gli autori, "e aprono la strada a nuovi scenari terapeutici".

Bibliografia. Burt R, Loh Y, Testori A, et al. Autologous non-myeloablative haemopoietic stem cell transplantation in relapsing-remitting multiple sclerosis: a phase I/II study. The Lancet Neurology 2009; doi:10.1016/S1474-4422(09)70017-1.

stefania mengoni



http://it.notizie.yahoo.com/25/20090130/thl-sclerosi-multipla-il-trapianto-di-st-bd646f4.html

giovedì 29 gennaio 2009

Sindrome dei "bimbi in bolla"

RICERCA
La strategia contro l'Ada-Scid messa a punto al San Raffaele di Milano è efficace sul lungo periodo: i risultati della ricerca clinica sul New England Journal of Medicine
Sindrome dei "bimbi in bolla"
la terapia genica funziona
di ALESSIA MANFREDI


ROMA - E' una malattia rara, che costringe i bambini che ne sono colpiti a vivere "in una bolla", confinati in casa, lontani da ogni contatto, costantemente disinfettati. Perché l'Ada-Scid, una delle forme più comuni di immunodeficienze combinate gravi, ne compromette il sistema immunitario e li rende vulnerabili a tutti i germi, anche quelli più innocui per le persone sane. Oggi una cura c'è, ed è italiana: la terapia genica messa a punto all'Istituto San Raffaele-Telethon si è dimostrata efficace e sicura e i suoi effetti duraturi. I risultati finali della sperimentazione, guidata dalla professoressa Maria Grazia Roncarolo e dal professor Alessandro Aiuti, oggi professore associato all'università di Tor Vergata a Roma, sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine e raccolgono le conclusioni della ricerca clinica di terapia genica iniziata nel 2000.

Una terapia che ha cambiato la vita di molti bubble babies, "bimbi in bolla", chiamati così perché la malattia li obbliga a vivere in un ambiente sterile: da Salsabil, una bimba palestinese entrata in cura presso l'istituto milanese otto anni fa, a Abdul, di origine pachistana, arrivato in Italia a soli tre mesi, con una storia particolarmente difficile: i suoi tre fratelli sono morti di Ada-Scid. Oggi Salsabil e Abdul stanno bene e con loro gli altri bambini curati con il protocollo milanese: possono finalmente andare a scuola, giocare con gli altri, fare una vita normale.


Il lavoro dei ricercatori dell'Hsr-Tiget ha dimostrato che per curare la malattia - causata dall'alterazione del gene che permette la produzione di un enzima specifico, l'adenosin deaminasi (Ada) - e ripristinare un sistema immunitario perfettamente funzionante è sufficiente una sola infusione di cellule staminali del midollo osseo, corrette preventivamente con la terapia genica. Nel caso di Abdul e degli altri piccoli trattati, si è visto che le cellule staminali contenenti l'enzima Ada normale inserite nei pazienti, anche a distanza di anni dalla terapia, continuano ad essere presenti ed attive nel produrre cellule del sangue, tra cui linfociti, globuli rossi, piastrine.

"Oggi possiamo dirlo, la terapia è sicura ed è efficace nel tempo" spiega il professor Aiuti. "L'importanza del lavoro sta nel fatto che il difetto viene curato nelle cellule madri, e lo stesso approccio è stato applicato con successo in altri centri del mondo per altre malattie: non solo immunodeficienze ma anche altre malattie genetiche del sistema nervoso centrale e talassemia".

Prima della svolta grazie alla terapia genica per l'Ada- Scid si poteva ricorrere al trapianto di midollo osseo - difficile per il problema di trovare donatori compatibili - o somministrare un farmaco con l'enzima mancante: soluzione, anche questa carente, perché alla lunga la medicina perdeva efficacia.

Oggi i ricercatori cantano vittoria per almeno nove piccoli, provenienti non solo dall'Italia ma da diversi paesi, dalla Svizzera al Venezuela. In loro la malattia - che in Italia colpisce uno o due bambini l'anno e si manifesta fin dalle prime settimane di vita, provocando un arresto della crescita e daneggiando vari organi per la carenza dell'enzima Ada, essenziale per la maturazione ed il funzionamento dei linfociti - è stata sconfitta. Per altri tre bambini trattati si attendono risultati a lunga distanza. Ma il protocollo di terapia messo a punto nell'istituto milanese è ora preso a modello anche all'estero, rendendo il San Raffaele il centro di riferimento per la cura di questa patologia genetica.

Risultati promettenti, che schiudono la via al trattamento con terapia genica con staminali anche per altre forme di immunodeficienze ereditarie: al San Raffaele-Tiget si pensa di iniziare due nuovi studi clinici sulla sindrome di Wiskott-Aldrich, un'altra forma di immunodeficienza, e sulla Leucodistrofia Metacromatica, una malattia degenerativa del sistema nervoso, mentre è vicina una applicazione clinica anche per la talassemia.

(29 gennaio 2009) Tutti gli articoli di Scienze



http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/scienze/bimbi-bolla/bimbi-bolla/bimbi-bolla.html

mercoledì 28 gennaio 2009

IL SUCCESSO SOCIALE DIPENDE DAI GENI


Scienziati: successo sociale dipende dai geni
Lo dicono ricercatori di Harvard e Università di San Diego



New York, 26 gen. (Apcom) - Una vita sociale brillante non dipende dai vestiti alla moda. La popolarità è questione di geni. Almeno secondo uno studio realizzato da ricercatori di Harvard e dell'Università di San Diego, in California.


La ricerca è stata condotta su un campione di 1.110 gemelli selezionati in una popolazione di 90.000 adolescenti. L'obiettivo degli scienziati era capire da cosa dipendesse la popolarità di un individuo, intesa come il numero di amici posseduti da una persona e la sua tendenza ad occupare il centro dell'attenzione in occasioni mondane. Gli scienziati hanno rilevato che i gemelli omozigoti, nati dalla fecondazione di una singola cellula, tendono ad avere una vita sociale più simile rispetto a quella dei gemelli eterozigoti, nati da due cellule separate.



"Lo studio ci dice chiaramente che il successo nelle relazioni sociali dipende dall'eredità genetica di un individuo", afferma James Flower uno degli autori della ricerca e docente all'Università di Chicago. "Significa che la selezione naturale agisce non solo su aspetti come la capacità di un individuo di resistere al freddo, ma anche sulla sua abilità nel crearsi una rete di amicizie".



http://notizie.alice.it/notizie/top_news/2009/01_gennaio/27/scienziati_successo_sociale_dipende_dai_geni,17741697.html

lunedì 26 gennaio 2009

Medicina: Turchia, scoperto antiemorragico rivoluzionario

Medicina: Turchia, scoperto antiemorragico rivoluzionario
Si chiama Ankaferd antiemorragico (in sigla Abs) ed è un nuovo rivoluzionario farmaco scoperto da un ricercatore turco in grado di bloccare qualunque emorragia esterna in pochi secondi. Lo rende noto il quotidiano Today's Zaman che definisce il nuovo prodotto "la scoperta del secolo" nel campo dei farmaci antiemorragici e che, per il momento, è stato registrato e commercializzato in Turchia, in Bosnia e in Erzegovina. L'Abs, come spiega il giornale, è un farmaco di origine organica che è stato sottoposto a sperimentazione in 682 ospedali e oltre 500 ambulanze come agente emostatico, mentre i test clinici riguardanti citotossicità (ovvero la tossicità per le cellule), irritazione della pelle, sensibilizzazione e sterilità, condotti presso l'Università Hacettepe di Ankara, hanno dato esiti talmente positivi da convincere il ninistero della Sanità a registrare il nuovo prodotto. Huseyin Cahit Firat, inventore del miracoloso farmaco, non è un dottore in medicina bensì un ex uomo d'affari, giornalista e studioso di economia appassionato di erboristeria che dopo 30 anni di studi ha scoperto che la combinazione ottenuta in laboratorio mescolando galangal (una radice simile a quella dello zenzero infatti è chiamata anche "zenzero blu") molto usata nella cucina thailandese e vietnamita, ortica, foglie di vite, liquirizia e timo, può costituire un potente antiemorragico. Come ha dichiarato lo stesso scopritore, "a differenza di altri farmaci analoghi, l'Abs è in grado di arrestare le emorragie esterne senza coagulare il sangue ma agisce creando un rete di proteine che in pochi secondi bloccano il flusso ematico". L'Abs rappresenta inoltre l'unico prodotto in grado di arrestare le emorragie gengivarie nei pazienti emofiliaci e diabetici.

http://unionesarda.ilsole24ore.com/Articoli/News/103278

I chili di troppo contagiosi come il raffreddore

I chili di troppo contagiosi come il raffreddore
26 gennaio 2009


ROMA - I chili di troppo potrebbero avere un responsabile microscopico, l'adenovirus. Il già noto e contagioso virus causa di mal di gola e naso che cola "avrebbe il suo peso anche nell'aumento di peso". A sostenere la tesi per cui l'obesità si contrarrebbe esattamente come un comune e fastidioso raffreddore, complici mani sporche e colpi di tosse, sono i ricercatori statunitensi del Pennington Biomedical Research Centre.

"Quando il virus raggiunge il tessuto cutaneo - spiega Nikhil Dhurandhar, coordinatore della ricerca - si replica, facendo più copie di se stesso. Il processo aumenta il numero di nuove cellule grasse, il che spiegherebbe perchè il tessuto adiposo cresce e perchè la gente ingrassa quando si infetta con questo virus". La prova è giunta da un test di laboratorio condotto su topi e polli. Infettati con il virus sotto accusa, gli animali contagiati ingrassavano molto più rapidamente di quelli non infettati dall'adenovirus, e questo a parità di cibo ingurgitato.

Un test ha, inoltre, dimostrato che un terzo delle persone grasse ha il raro virus ( rispetto ad appena l'11% dei magri) e che l'aumento del peso può durare anche tre mesi prima che il corpo maturi una resistenza. Sebbene gli esiti della ricerca, comunque, gli stessi studiosi hanno riconosciuto che ci potrebbero essere altre ragioni per cui le persone sono in sovrappeso e dunque "non ha senso che tentino di evitare il virus". Anche perchè, per realizzare un vaccino contro il virus, ci vorranno 5 o 10 anni almeno.


http://www.diregiovani.it/gw/producer/dettaglio.aspx?ID_DOC=17089

domenica 25 gennaio 2009

OGGI 56ESIMA GIORNATA MONDIALE DELLA LEBBRA


OGGI 56ESIMA GIORNATA MONDIALE DELLA LEBBRA

(AGI) - Roma, 25 gen. - Circa 700 persone si ammalano ogni giorno, 254.525 sono i casi registrati nel mondo nel 2007. Oggi, per la cinquantaseiesima volta, ricorre la Giornata mondiale dedicata ai malati di lebbra, una malattia ormai curabile grazie a farmaci antibiotici ma che continua a colpire: in realta' nessuno puo' dire esattamente quanti ne siano gli afflitti nel mondo. Di fatto, quando si avviano piani di ricerca di casi di lebbra in aree poco raggiungibili, si continuano a scoprire numerose persone affette. Tra loro la percentuale dei bambini rimane alta e questo indica un alto livello d'infezione. Anche se la lebbra e' al giorno d'oggi perfettamente curabile, tuttora le si accompagna spesso un pesante stigma sociale che vede le persone che ne sono state affette, anche se guarite completamente, come 'diverse' e socialmente emarginate. Il bacillo, inizialmente, distrugge i nervi periferici provocando insensibilita'; a causa di cio' vengono quindi danneggiati i tessuti rendendo cosi' inevitabili le mutilazioni. Se non trattata, provoca danni progressivi e permanenti a pelle, nervi, arti ed occhi. L'hanseniasi (formula invalsa come politicamente corretta per definire la lebbra) e' diffusa essenzialmente in quella che viene definita la cintura della poverta', area in cui vivono un miliardo e 300 milioni di persone dal reddito pro capite di meno di un euro al giorno. La lebbra, ignorata dai mass media occidentali, rimane il simbolo della condizione di estrema poverta' e della mancanza dei piu' banali diritti sanitari e sociali in cui si trova gran parte del genere umano. La 56a Giornata mondiale dei malati di lebbra e' in particolare dedicata all' India, il paese che registra il piu' alto numero di nuovi casi ogni anno. Quello di oggi e' un appuntamento internazionale, un momento di solidarieta' che si rinnova ormai da piu' di cinquant'anni:la Gioranta fu voluta nel 1954 da Raoul Follereau, scrittore, poeta e giornalista francese che per il suo impegno nella lotta alla malattia fu definito 'apostolo dei malati di lebbra'.



http://salute.agi.it/primapagina/notizie/200901251536-hpg-rsa0002-art.html

Più pulita è l'aria che si respira e più si allunga la vita







Più pulita è l'aria che si respira e più si allunga la vita
La longevità legata all'aria pulita
Ogni 10 microgrammi in meno di inquinanti per metro cubo di aria equivalgono a 7 mesi in più di vita
MILANO - L'aria pulita è buona da respirare e questo si è sempre saputo, ma ora sappiamo anche che, come un po' di buonsenso avrebbe suggerito, allunga la vita. La ricerca, portata avanti dalla Brigham Young University in collaborazione con la Harvard School of Public Health, ha preso in esame 51 metropoli e ha confrontato i dati inerenti l'aspettativa di vita degli abitanti con quelli riguardanti l'inquinamento atmosferico in un periodo compreso tra il 1980 e il 2000. I ricercatori hanno rilevato che la vita media si è accresciuta di 2,72 anni a partire dal 2000 e assegnano il 15 per cento del merito alla diminuzione delle emissioni inquinanti. Altri studi affermano che una cattiva qualità dell'aria peggiora le condizioni di chi soffre di malattie cardiache o polmonari. Un esempio europeo è quello della Gran Bretagna dove stime ufficiali quantificano in otto mesi il danno dell'inquinamento dell'aria sull'aspettativa di vita.

LO STUDIO - I ricercatori hanno usato modelli statistici avanzati che hanno permesso loro di sgomberare il campo dalle altre variabili in grado di condizionare la durata della vita delle persone (come il fumo o la condizione sociale). La ricerca ha preso in esame soprattutto l'inquinamento dovuto al PM 2.5, le famigerate polveri sottili dovute prevalentemente al traffico automobilistico (e in grado di depositarsi nei nostri polmoni) e sospettate di peggiorare fenomeni asmatici e malattie cardiache. Il risultato cui sono approdati gli studiosi è che 10 microgrammi per metro cubo di particolato inquinante in meno rappresentano sette mesi di vita in più. Tra le città in esame, quelle che con maggiore decisione hanno perseguito l'obiettivo di migliorare l'aria per i propri abitanti hanno regalato loro ben dieci mesi di aspettativa di vita in più. Pittsburgh e Buffalo, che partivano dall'infelice condizione di essere tra le metropoli con l'aria peggiore, hanno visto decrescere le polveri sottili di 14 microgrammi per metro cubo.

LE CONCLUSIONI - «Abbiamo la prova che stiamo ottenendo un consistente ritorno dal nostro investimento speso per migliorare la qualità dell'aria. Questo non porta solo miglioramenti all'ambiente ma anche alla nostra salute», sostiene uno dei ricercatori coinvolti nello studio, il dottor C. Arden Pope. In Europa una ricerca di questo tipo non è ancora possibile poiché i dati necessari hanno iniziato a essere raccolti in tempi troppo recenti per fornire un dato statistico attendibile. Tuttavia, ufficiosamente, traspare dal mondo scientifico un piccolo vantaggio europeo rispetto all'aspettativa di vita americana. Resta quindi invariato il valore del consiglio della nonna di stare all'aria aperta. Se non è troppo inquinata.

Emanuela Di Pasqua
http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/09_gennaio_22/aria_pulita_emanuela_di_pasqua_c8276bdc-e88c-11dd-aae1-00144f02aabc.shtml

mercoledì 14 gennaio 2009

EPATITE VIRALE

EPATITE VIRALE
Le epatiti virali raggruppano diverse infezioni che colpiscono il fegato che, pur avendo quadri clinici simili, differiscono dal punto di vista epidemiologico ed immuno-patogenetico. In Italia le epatiti sono iscritte in classe 2, fra le malattie rilevanti perché ad elevata frequenza e passibili di interventi di controllo, per cui è prevista la segnalazione all’Unità Sanitaria Locale da parte del medico, entro due giorni dalla rilevazione del caso.

Ad oggi sono noti 5 tipi di epatite determinati dai cosiddetti virus epatitici maggiori: epatite A, epatite B, epatite C, epatite D (Delta), epatite E. In circa il 10-20% dei casi tuttavia l’agente responsabile dell’epatite resta ignoto. Di recente sono stati scoperti altri virus epatotropi, quali il virus G, il virus TT ed ultimamente il SEN virus, ma il loro ruolo come agenti causali di epatite è tuttora in fase di studio e nel caso del virus G ed il virus TT appare molto dubbio.

Esistono poi altri virus , che accanto alla malattia di base possono a volte causare un quadro di epatite di varia gravità. Questi vengono definiti virus epatitici minori e principalmente sono: citomegalovirus, virus di Epsteun-Barr, virus Coxsackie ed herpesvirus.



Epatite A

E’ provocata da un picornavirus, HAV, classificato attualmente come prototipo del nuovo genere degli Hepatovirus, ed ha un periodo di incubazione che va da 15 a 50 giorni. L’epatite A ha generalmente un decorso autolimitante e benigno sono pure frequenti le forme a sintomatiche, soprattutto nel corso di epidemie e nei bambini.
Tuttavia a volte si possono avere forme più gravi con decorso protratto ed anche forme fulminanti rapidamente fatali. La malattia è letale in una percentuale di casi che si attesta fra lo 0,1 per cento e lo 0,3 per cento, ma può arrivare fino all’1,8 per cento negli adulti sopra ai 50 anni. In genere la malattia che dura 1-2 settimane si i manifesta con febbre, malessere, nausea, dolori addominali ed ittero, accompagnati da elevazioni delle transaminasi e della bilirubina. I pazienti guariscono completamente senza mai cronicizzare. Non esiste lo stato di portatore cronico del virus A, né nel sangue, né nelle feci.
La trasmissione avviene per via oro-fecale. Il virus è presente nelle feci 7-10 giorni prima dell’esordio dei sintomi e fino a una settimana dopo, mentre è presente nel sangue solo per pochi giorni. In genere il contagio avviene per contatto diretto da persona a persona o attraverso il consumo di acqua o cibi crudi o non cotti a sufficienz, soprattutto molluschi, contaminati con materiale fecale contenente il virus. Solo raramente sono stati osservati casi di contagio per trasfusioni di sangue o prodotti derivati.
L’epatite A è diffusa in tutto il mondo sia in forma sporadica, sia epidemica. Nei paesi in via di sviluppo con scarse condizioni igieniche-sanitarie, l’infezione si trasmette rapidamente tra i bambini, nei quali la malattia è spesso asintomatica, e molti adulti risultano pertanto già immuni alla malattia. Nei paesi economicamente più avanzati, le migliorate condizioni igienico-sanitarie, hanno invece determinato una riduzione della diffusione dell’infezione tra i bambini ed una conseguente maggior diffusione tra gli adulti a causa di una maggiore proporzione di soggetti suscettibili che hanno anche un maggior rischio di forme cliniche evidenti e severe. Questo è probabilmente dovuto al fatto che sono stati contagiati nei primi anni di vita: in questo caso la malattia ha un decorso minimo e permette di immunizzarsi. Tuttavia grazie a migliori condizioni igenico-sanitarie, la percentuale degli adulti immunizzati nei paesi in via di sviluppo è nettamente inferiore rispetto al passato, per cui si è notato un aumento di epidemie di epatite A.
Nei paesi industrializzati la trasmissione è frequente in ambito familiare e si verifica sporadicamente negli asili nido, dove sono presenti bambini che fanno uso dei pannolini.L’infezione è pure frequente fra i soggetti che hanno fatto viaggi in paesi in cui la malattia è endemica.
Dal punto di vista preventivo, in Italia sono disponibili due diversi vaccini che forniscono una protezione dall’infezione già dopo 14-21 giorni. La vaccinazione è raccomandata, nei soggetti a rischio, fra cui coloro che sono affetti da malattie epatiche croniche, gli omosessuali, coloro che viaggiano in paesi dove l’epatite A è endemica, per coloro che lavorano in ambienti a contatto con il virus, i tossicodipendenti, ed i contatti familiari di soggetti con epatite acute A. Molto importanti sono pure le norme igieniche generali per la prevenzione dell’infezioni oro-fecali (igiene personale, lavaggio e cottura delle verdure, molluschi ecc.) ed il controllo della coltivazione e della commercializzazione dei frutti di mare.



Epatite B

Il virus dell’epatite B (HBV) è un virus a DNA appartenente alla famiglia degli Hepadnaviridae. Se ne conoscono attualmente 6 genotipi (A-F) aventi una diversa distribuzione geografica. L’epatite acuta B è nella maggior parte dei casi asintomatica.In coloro in cui la malattia si manifesta, l’esordio è insidioso, con vaghi disturbi addominali, nausea, vomito e spesso si arriva all’ittero, accompagnato a volte da lieve febbre. Solo però il 30-50 per cento delle infezioni acute negli adulti e il 10 per cento nei bambini porta all’ittero. Il tasso di letalità è di circa l’1 per cento, ma la percentuale aumenta nelle persone con età superiore ai 40 anni.
Nell’adulto la malattia può cronicizzate in circa il 5-10 % dei casi. Il rischio di cronicizzazione aumenta al diminuire dell’età in cui viene acquisita l’infezione, tanto che nei neonati contagiati poco dopo la nascita si verifica circa 9 volte su 10.
Nel 20 per cento dei casi l’epatite cronica può progredire in cirrosi epatica nell’arco di circa 5 anni. Il cancro al fegato (epatocarcinoma) è un’altra complicanza frequente dell’epatite cronica, soprattutto nei pazienti con cirrosi. L’infezione da HBV nei paesi ad elevata endemia è responsabile fino al 90% dei carcinomi del fegato.
Si stima che più della metà della popolazione mondiale sia stata infettata dal virus dell’epatite B e che siano circa 350 milioni i soggetti con infezione cronica. Ogni anno si stima che in tutto il mondo si verifichino più di 50 milioni di nuove infezioni da HBV e che circa un milione di persone muoia a causa dell’infezione HBV. In regioni ad alta endemia, come Asia dell’est, Africa subshariana e Amazzonia, la percentuale di portatori cronici va da 10 al 25 % nei paesi a bassa endemia come Nord America e Europa Occidentale questa percentuale è meno del 2%.
La sorgente d’infezione è rappresentata da soggetti affetti da malattia acuta o da portatori d’infezione cronica, che hanno il virus nel sangue ma anche in diversi liquidi biologici: saliva, bile, secreto nasale , latte materno, sperma , muco vaginale ecc..
La trasmissione, attraverso il sangue avviene pertanto per via parenterale, apparente o non apparente, per via sessuale e per via verticale da madre a figlio. La via parenterale apparente è quella che si realizza attraverso trasfusioni di sangue od emoderivati contaminati dal virus, o per tagli/ punture con aghi/strumenti infetti. La via parenterale in apparenza si realizza quando il virus penetra nell’organismo attraverso minime lesione della cute o delle mucose (spazzolini, forbici, pettini, rasoi, spazzole da bagno contaminate da sangue infetto).
Per quanto riguarda il rischio di contagio per trasfusione, esiste ancora nei paesi in via di sviluppo, mentre è praticamente nullo nei paesi industrializzati. Infatti, al controllo del sangue della donazione si aggiungono i processi di lavorazione successiva che distruggono il virus.
A rischio dunque sono i tossicodipendenti, gli omosessuali, il personale sanitario a contatto con persone contagiate o che lavorano sull’agente infettivo, ma anche i contatti familiari e sessuali con persone infette, e tutte quelle pratiche che prevedono il contatto con aghi e siringhe non sterili, come i tatuaggi, piercing, manicure, pedicure, ecc.. Il virus resiste in ambienti esterni fino a 7 giorni, per cui il contagio è possibile anche per contatto con oggetti contaminati.
Il periodo di incubazione varia fra 45 e 180 giorni, ma si attesta solitamente fra 60 e 90 giorni.
Dal punto di vista della prevenzione, esiste un vaccino che si è dimostrato sicuro e fornisce immunità di lunga durata. In Italia dal 1991, la vaccinazione è obbligatoria per tutti i neonati e per gli adolescenti di 12 anni. La vaccinazione è fortemente raccomandata per i gruppi di popolazione a maggior rischio d’infezione ( tossicodipendenti, conviventi di portatori cronici, personale sanitario, omossessuali maschi ecc.).



Epatite C

L’agente infettivo, il virus HCV (Hepacavirus) fa parte della famiglia dei Flaviviridae. Sono stati identificati sei diversi genotipi e oltre 90 sub-tipi. Ancora non è chiaro se ci siano differenze nel decorso clinico della malattia per i diversi genotipi, ma ci sono differenze nella risposta dei diversi genotipi alle terapie antivirali.
L’infezione acuta da HCV è assai spesso asintomatica ed anitterica (in oltre i 2/3 dei casi ). I sintomi, quando presenti sono caratterizzati da dolori muscolari, nausea , vomito, febbre, dolori addominali ed ittero. Un decorso fulminante fatale si osserva assai raramente (0,1%). L’infezione acuta diventa cronica in una elevatissima percentuale dei casi, stimata fino all’85%. Il 20-30 % dei pazienti con epatite cronica C sviluppa nell’arco di 10-20 anni una cirrosi e l’epatocarcinoma può evolvere da una persistente cirrosi da HCV in circa l’1-4% dei pazienti per anno.
La distribuzione del virus è universale. L’infezione colpisce circa il 3% della popolazione mondiale. I soggetti infettati da HCV sono 3,5-5 milioni e circa 4 milioni negli Stati Uniti. In Italia la percentuale di soggetti infetti va dal 3 al 12 % della popolazione generale con un gradiente che cresce in senso nord-sud e con l’età. Una frequenza particolarmente elevata dell’infezione è stata riscontrata in alcuni paesi africani come il Camerun e l’Egitto.
Il periodo di incubazione va da 2 settimane a 6 mesi, ma per lo più varia nell’ambito di 6-9 settimane.
La trasmissione avviene principalmente per via parenterale apparente ed non apparente. Sono stati documentati anche casi di contagio per via sessuale, ma questa via sembra essere molto meno efficiente che per l’HBV .L’infezione si può trasmettere per via verticale da madre a figlio in meno del 5% dei casi. Il controllo delle donazioni di sangue , attraverso il test per la ricerca degli anticorpi anti-HCV, ha notevolmente ridotto il rischio d’infezione in seguito a trasfusioni di sangue ed emoderivati.
A tutt’oggi non esiste un vaccino per l’epatite C e l’uso di immunoglobuline non si è mostrato efficace. Le uniche misure realmente efficaci sono rappresentate, dalla osservanza delle norme igieniche generali, dalla sterilizzazione degli strumenti usati per gli interventi chirurgici e per i trattamenti estetici, nell’uso di materiali monouso, nella protezione dei rapporti sessuali a rischio.



Epatite Delta (D)

L’agente infettivo dell’epatite Delta è noto come HDV: viene classificato tra i virus cosiddetti satelliti, o subvirioni, che necessitano della presenza di un altro virus per potersi replicare.Il virus dell’epatite D per infettare le cellule epatiche richiede in particolare l’ausilio del virus dell’epatite B, quindi l’infezione si manifesta in soggetti colpiti anche da HBV.
L’infezione può verificarsi secondo due modalità:
1) infezione simultanea da virus B e D. In questo caso si verifica un epatite clinicamente simile all’epatite B.
2) sovrainfezione di virus D in un portatore cronico di HBV. Si verifica allora una nuova epatite acuta a volte fatale. Studi recenti hanno mostrato che, in Europa e in Usa, il 25-50 per cento dei casi di epatite fulminante che si pensavano associati al virus dell’epatite B, erano invece causati da HDV.
In entrambi i casi l’infezione può diventare cronica e in questo caso ha generalmente un decorso più severo rispetto a quella da virus B.
La modalità di trasmissione è la stessa dell’epatite B e il periodo di incubazione va da 2 a 8 settimane.
Sono stati identificati 3 genotipi di HDV. Il genotipo I è quello maggiormente diffuso, il genotipo II è stato rilevato in Giappone e a Taiwan, mentre il genotipo III è presente solo in Amazzonia.
L’infezione da virus D è diffusa in tutto il mondo, e si stima che siano circa 10 milioni le persone affette da epatite D e dal suo virus di sostegno, l’EBV.
Per quanto riguarda le misure preventive, vale la profilassi per l’EBV/HBV: il vaccino contro l’epatite B sarà in grado di proteggere anche contro l’epatite D.




Epatite E

L’agente infettivo dell’epatite E, il virus HEV è stato provvisoriamente classificato nella famiglia dei Caliciviridae. L’epatite E è una malattia acuta assai spesso itterica ed autolimitante, molto simile all’epatite A. Caratteristica principale di questa infezione è l’alta frequenza di forme cliniche fulminanti (1-12% ) ed una particolare severità del decorso nelle donne gravide, specialmente nel terzo trimestre di gravidanza, con mortalità che arriva fino al 40%. La malattia non cronicizza mai.
Come per l’epatite A, la trasmissione avviene per via oro-fecale, e l’acqua contaminata da feci è il veicolo principale dell’infezione. Il periodo di incubazione va da 15 a 64 giorni.
E’ presente in tutto il mondo: epidemie e casi sporadici sono stati registrati principalmente in aree geografiche con livelli di igiene e sanità inadeguati. Così si sono state identificate epidemie in India, Birmania, Iran, Bangladesh, Etiopia, Nepal, Algeri, Libia, Somalia, Indonesia Messico, Cina, Pakistan, nelle repubbliche dell’Asia Centrale e dell’ex- URSS. Nei paesi industrializzati invece, la maggior parte dei casi riguardano persone di ritorno da viaggi in paesi a rischio.
Per quanto riguarda la prevenzione, è stata proposta la somministrazione di gammaglobuline, soprattutto nelle donne gravide, ma la loro efficacia deve essere dimostrata. Sono in corso studi per l’allestimento di un vaccino.



http://www.epicentro.iss.it/problemi/epatite/epatite.asp

Alzheimer: perche' le donne si ammalano di piu'

Tecnoscienze
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Il cromosoma X porterebbe in se' un gene fondamentale per il morbo
Alzheimer: perche' le donne si ammalano di piu'
Su Nature genetics l'ultima ipotesi


Milano - L'incidenza del morbo di Alzheimer nelle donne è da sempre più alta che negli uomini. Finora i ricercatori avevano giustificato questo dato con la maggior longevità del genere femminile che darebbe maggior possibilità al morbo di far la sua comparsa.

La vera ragione risiederebbe invece nel codice genetico e in particolare nel cromosoma X, presente in coppia nelle donne e in singola copia negli uomini.
Lo studio coordinato da Steven Younkin, ricercatore presso il Mayo Clinic College of Medicine (Jacksonville, Florida - Usa), ha individuato una variante del gene PCDH11X che sarebbe direttamente collegato alla comparsa del morbo. Il gene in questione codifica per una proteina la protocaderina, appartenete ad una famiglia di molecole che aiutano le cellule del sistema nervoso centrale a comunicare tra loro.

Il gene è localizzato sul cromosoma X, compare quindi anche negli uomini ma evidentemente con una minor frequenza rispetto alle donne.
La ricerca, i cui risultati si possono consultare sull'ultimo numero di Nature Genetics, ha evidenziato come donne che presentano alterazione genica di PCDH11X su un solo cromosoma X hanno le stesse probabilità di ammalarsi degli uomini, mentre le probabilità sono molto maggiori se la variazione è in omozigosi, ovvero presente su entrambi i cromosomi.

Massimiliano Puglisi

14/1/2009

http://www.voceditalia.it/articolo.asp?id=26416&titolo=Alzheimer%20perche'%20le%20donne%20si%20ammalano%20di%20piu'

Studio italiano, così l'organismo recluta i globuli bianchi

13/1/2009

Studio italiano, così l'organismo
recluta i globuli bianchi




Apre la strada a farmaci mirati per le malattie autoimmuni e le neoplasie


ROMA
Un gruppo di ricercatori italiani, del Dipartimento di Patologia e del Centro di Biomedicina Computazionale dell’Università di Verona, condotto da Carlo Laudanna, ha scoperto il meccanismo molecolare che regola il reclutamento dal sangue e la migrazione nei tessuti dei globuli bianchi, i principali attori del sistema immunitario.

Le implicazioni di questa scoperta, pubblicata ieri su Nature Immunology, sono molteplici, non ultima quella di una maggiore comprensione del funzionamento del sistema immunitario, oltre che la possibilità di sviluppare cure farmacologiche «mirate» per malattie infiammatorie e autoimmuni, con possibili importanti prospettive per la cura delle patologie neoplastiche.

Il sistema immunitario, che ha la funzione di proteggere il nostro organismo dalle infezioni da microrganismi, nonché dallo sviluppo e diffusione del cancro, per sua natura agisce al «posto giusto e al momento giusto», localizzando la sua azione difensiva «solo» dove è necessario. In questo modo la risposta immune è circoscritta e mirata. Questa proprietà fondamentale dipende dalla precisa regolazione del reclutamento dei globuli bianchi dal sangue nei tessuti, un fenomeno scoperto più di 100 anni fa, ma le cui basi molecolari si sono cominciate a comprendere solo negli ultimi anni.

Secondo quanto riferiscono i ricercatori nel loro studio, sarebbe stata scoperta la funzione regolatrice fondamentale di cinque molecole che agiscono di concerto per creare un «modulo funzionale» regolatore, senza il quale la funzione dell’immunità’ viene meno. Le cinque molecole appartengono ai «sistemi di trasduzione del segnale», quei processi biochimici di trasferimento e propagazione di un segnale all’interno di una cellula, che avvengono attraverso l’attivazione di specifiche vie di segnalazione che controllano lo stato metabolico la proliferazione e il differenziamento cellulari.

«Nello studio - spiegano i ricercatori - dimostriamo per via sperimentale e per la prima volta nel sistema immunitario, un concetto teorico fondamentale detto »modularità«, mediante il quale la funzione contemporanea delle cinque molecole definisce un modulo funzionale che regola l’attivazione del reclutamento dei linfociti (un tipo particolare di globulo bianco) dal torrente sanguigno nei tessuti».

Lo studio è stato condotto nei laboratori del dipartimento di Patologia con l’ausilio di tecnologie di avanguardia fornite dal centro di Biomedicina computazionale (CBMC) dell’Università di Verona, ed è stato finanziato dalla Fondazione Cariverona e dalla Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scienza/grubrica.asp?ID_blog=38&ID_articolo=1106&ID_sezione=243&sezione=News

NOTTI INSONNI, OCCHIO AI RAFFREDDORI

» 2009-01-13 14:16
NOTTI INSONNI, OCCHIO AI RAFFREDDORI
ROMA - Dormire fa bene alla salute, si sa. L'ultima conferma arriva da uno studio della Carnegie Mellon University pubblicato sugli 'Archives of internal medicine', secondo cui con un sonno di meno di 7 ore per notte aumenta il rischio di prendersi raffreddore e influenza.

Secondo la ricerca la carenza di sonno triplicherebbe infatti la possibilità di raffreddarsi rispetto a chi dorme otto o più ore per notte. Dormire poco danneggerebbe il sistema immunitario e la capacità del corpo di far fronte ai virus responsabili di raffreddore e influenza.

Per confermare questa teoria i ricercatori hanno messo in quarantena 153 tra uomini e donne in salute, di circa 37 anni, dandogli gocce nasali contenenti rhinovirus, causa del comune raffreddore. Nei 28 giorni seguenti si è visto che quelli che dormivano meno, erano quelli con il rischio maggiore di raffreddore. Anche la qualità del sonno appare un fattore importante.

I volontari che hanno speso meno del 92% del loro tempo nel letto addormentati erano 5,5 volte più a rischio di quelli che lo erano stati almeno per il 98% del tempo. Per i ricercatori la mancanza di una buona qualità del sonno disturba la regolazione dei componenti chimici chiave prodotti dal sistema immunitario per combattere le infezioni.
http://www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/inbreve/visualizza_new.html_851029042.html

GB: "TIMES", TEST GENETICI DI MASSA

Londra, 19:08

GB: "TIMES", TEST GENETICI DI MASSA PER PREVENIRE TUMORI
Per la prima volta sara' offerto a tutti i cittadini britannici la possibilita' di effettuare test genetici in grado di individuare predisposizione all'ammalarsi di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata. Finora questi esami erano riservati a quanti avevano avuto casi di malati di cancro in famiglia, e in cui esisteva una prova indiretta di un rischio maggiore. Il programma, rivela il Times, e' stato messo a punto dall'University College di Londra che punta a prevenire l'insorgenza dei tumori con screening genetici di massa. Il National Health Service ha verificato "che oltre il 50% dei pazienti con geni a rischio non li ha ereditati". Il progetto e' stato annunciato dal dottor Paul Serhal, responsabile del reparto dove ieri e nata la prima bambina senza il gene del cancro al seno. Lo screening partira' dalla comunita' ebraica "ashkenazita" londinese, al cui interno i casi di cancro al seno sono oltre la media.


(10 gennaio 2009)
http://www.repubblica.it/ultimora/24ore/GB-quotTIMESquot-TEST-GENETICI-DI-MASSA-PER-PREVENIRE-TUMORI/news-dettaglio/3493329

sabato 10 gennaio 2009

GENETICA: PRIMA BIMBA SENZA GENE DEL CANCRO AL SENO

GENETICA
Nata a Londra la prima bimba
senza gene del cancro al seno
La piccola - avuta con la fecondazione in vitro - sta bene. Malattia evitata grazie alla diagnosi preimpianto sull'embrione



LONDRA - Per tre generazioni la sua famiglia ha lottato contro il cancro al seno. Lei, però, non correrà il rischio di ammalarsi: è nata in Gran Bretagna la prima bambina che, grazie a uno screening genetico, non ha ereditato dai genitori il gene responsabile della malattia.

Mamma e piccola stanno bene, ha annunciato Paul Serhal, dell'University College di Londra, il medico che le ha assistite. La bimba è nata grazie alla fecondazione assistita: l'embrione era stato esaminato prima dell'impianto per verificare la presenza di alterazioni nel gene Brca1. Le donne che manifestano questa variazione hanno una possibilità pari all'80 per cento di sviluppare il cancro al seno e pari al 60 per cento di sviluppare il cancro alle ovaie.

Degli undici embrioni prodotti con la fecondazione in vitro sei avevano il gene Brca1 mutato e cinque sono risultati liberi: di questi, due sono stati impiantati nell'utero della donna e ne è risultata la gravidanza.

"Questa bambina non dovrà affrontare la paura di sviluppare questa forma genetica di cancro al seno o di cancro alle ovaie da adulta. I genitori non passeranno questo rischio per la salute alla figlia. L'eredità duratura di questa operazione è lo sradicamento della trasmissione di questa forma di cancro che ha devastato queste famiglie per generazioni", ha dichiarato con soddisfazione Serhal.

La diagnosi genetica pre-impianto (Pgd) prevede il prelievo di una cellula di un embrione nello stadio in cui è composto da 8 cellule, tre giorni dopo la sua formazione. E' una pratica abbastanza comune in Gran Bretagna per escludere malattie ereditarie come la fibrosi cistica e la malattia di Huntington.


Nel 2006, l'Autorità britannica per la fertilità umana e l'embriologia (Hfea) ha dato il via libera anche ai test sui cosiddetti geni suscettibili, come il Brca1. Tutti gli esseri umani portano una versione di questi geni - la proteina del Brca1, quando funziona correttamente, contribuisce a impedire la formazione di tumori - ma alcune variazioni aumentano enormemente la possibilità di sviluppare il cancro.

Essere portatori del difetto genetico non significa la certezza di avere la malattia da adulti. Tuttavia, in famiglia c'erano stati diversi casi: la nonna, la madre, la sorella e la cugina del papà della bambina neonata sono state colpite dal cancro al seno. Se la moglie, che ha 27 anni, avesse avuto un figlio maschio, egli avrebbe potuto passare il difetto genetico ad eventuali sue figlie.

I medici esultano, ma la notizia ha suscitato polemiche e c'è chi ha agitato lo spettro dell'eugenetica. Come Josephine Quintavalle, dell'organizzazione per la bioetica Comment on Reproductive Ethics dice: "Non è qualcosa di personale contro questa bambina, ma penso che si sia andati troppo in là. Alla base di tutto questo c'è l'eugenetica", ovvero il tentativo di migliorare geneticamente la razza umana.

Sarah Cant, dell'organizzazione Breakthrough Breast Cancer, nota: "La decisione di fare lo screening degli embrioni per vedere se portano un gene difettoso che provoca il cancro al seno è una questione complessa e molto personale. Le donne con una storia familiare di questa malattia ci dicono che quel che è giusto per una persona può non essere adatto a un'altra. E' importante che chiunque abbia questo problema abbia le informazioni appropriate per fare la scelta giusta per sè".

(9 gennaio 2009)



http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/scienze/bimba-cancro-londra/bimba-cancro-londra/bimba-cancro-londra.html

giovedì 8 gennaio 2009

Pediatria: studio, giocare all'aperto previene miopia bimbi

Pediatria: studio, giocare all'aperto previene miopia bimbi

ultimo aggiornamento: 07 gennaio, ore 17:54
Roma, 7 gen. (Adnkronos Salute) - Correre, giocare o anche leggere un libro all'aria aperta, tempo permettendo soprattutto in questi giorni di gelo e neve, riduce il rischio di miopia nei bambini. È quanto hanno rilevato i ricercatori del Centre of Excellence in Vision Science dell'Australian Research Council, convinti che il pericolo di vista 'corta' si abbassi addirittura del 90% godendo di due o tre ore di luce e aria ogni giorno.

I ricercatori australiani, che hanno analizzato la salute visiva di 4 mila studenti - riporta il 'Daily Mail' - scartano dunque l'ipotesi che i difetti di vista possano essere dovuti alla lettura eccessiva o al troppo utilizzo di televisione e computer. Il motivo per cui si diventa miopi, a loro parere, è invece il trascorrere troppo tempo dentro casa, sotto le luci artificiali invece di quella solare. La miopia - ricordano - si sviluppa fra gli 8 e i 12 anni d'età e attualmente colpisce oltre un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo, con una crescita esponenziale dell'incidenza soprattutto in Asia: in città come Singapore, ad esempio, ha bisogno degli occhiali da vista ben il 30% dei bambini, proprio per questo difetto. Al contrario, all'interno della comunità cinese di Sidney, solo il 3% dei piccoli è miope.

Gli esperti spiegano che "l'uomo è dotato naturalmente di una vista lunga. Un dato di fatto verificabile in tutte le popolazioni rurali del mondo - assicurano - Ma quando si frequenta la scuola, e poi si devono fare i compiti e magari si pratica uno sport al chiuso, le occasioni di trascorrere del tempo all'aperto diminuiscono radicalmente. Ed è questo il motivo del tragico aumento della miopia nel mondo. L'intensità della luce esterna, che può essere centinaia di volte più luminosa di quella degli ambienti interni, stimola infatti il rilascio di dopamina, una sostanza che blocca la crescita del bulbo oculare. Tutto questo previene la forma distorta dell'occhio che si rileva nelle persone miopi".




http://www.adnkronos.com/IGN/Salute/?id=3.0.2884271179

mercoledì 7 gennaio 2009

SCOPERTI GENI ASSOCIATI ALLA COLITE ULCEROSA

SCOPERTI GENI ASSOCIATI ALLA COLITE ULCEROSA


AGI) - Londra, 5 gen. - Numerosi geni su tre diversi cromosomi potrebbero avere un ruolo nella colite ulcerosa cronica. Almeno questo e' quanto ha scoperto un gruppo internazionale di ricercatori, guidato dalla University of Pittsburgh School of Medicine (Usa), e di cui hanno fatto parte anche scienziati dell'Irccs di San Giovanni Rotondo, in uno studio pubblicato sulla rivista Nature Genetics. La colite ulcerosa causa l'infiammazione e la perforazione della parete del retto e dell'intestino crasso. Una predisposizione genetica alla patologia era sospettata da tempo, dal momento che questa si presenta spesso all'interno di una stessa famiglia (lo stesso accade anche nel caso della malattia di Crohn, per la quale sono stati gia' individuati oltre 30 geni correlati). Per trovare i tratti del Dna associati alla sindrome, i ricercatori hanno analizzato centinaia di migliaia di geni, coinvolgendo oltre mille persone con colite ulcerosa. I dati sono stati poi confrontati con quelli di 2.571 nordamericani e italiani con antenati europei. I cromosomi che contengono i geni per cui e' stata trovata una associazione significativa con la colite ulcerosa sono '1p36,12q15' e '7q31'. I risultati confermano anche la correlazione - individuata da studi precedenti - con alcuni geni sui cromosomi '1p31' e '6p21'. "Attraverso la mappatura del Dna siamo riusciti a identificare le regioni del genoma legate alle malattie intestinali croniche", ha commentato Richard H. Duerr, che ha guidato lo studio. Il prossimo passo sara' comprendere se e come le varianti di questi geni aumentino il rischio di sviluppare le patologie, nell'ottica di una futura terapia genetica.
http://salute.agi.it/primapagina/notizie/200901051333-hpg-rsa0018-art.html

DIABETE-CURA MEDIANTE TRAPIANTO CELLULARE

6/1/2009

Diabete, trapianto cellulare
come primo passo per cura


ROMA
Un gruppo di scienziati americani impegnato nello studio di trapianti di cellule pancreatiche come possibile cura per il diabete di tipo 1 ha compiuto il primo passo per risolvere il problema del rigetto immunitario. I ricercatori dell’Albert Einstein College of Medicine of Yeshiva University, per il momento sono cauti ma se i risultati dei loro studi venissero confermati, per i malati di diabete di tipo 1, significherebbe eliminare del tutto le iniezioni quotidiane di insulina. Nelle persone con diabete di tipo 1, il sistema immunitario distrugge le cellule del pancreas che producono insulina e senza l’insulina, il glucosio si accumula nel sangue portando complicazioni come malattie cardiache, malattie renali, cecità e morte prematura.

Gli scienziati americani hanno trapiantato nei topi cellule produttrici di insulina alle quali sono stati aggiunti tre geni di un virus, in grado di eludere il rilevamento da parte del sistema immunitario che, altrimenti, le distruggerebbe. Le cellule trapiantate hanno ripristinato il normale livello del glucosio nel sangue dei topi diabetici ma nel giro di pochi giorni quelle stesse cellule sono state distrutte dal loro organismo. Il livello normale si è mantenuto per un tempo massimo di tre mesi.

«I risultati non sono ancora ottimali - ha detto Harris Goldstein, capo del progetto di ricerca - ma stiamo cercando altre combinazioni di geni virali per trovare la migliore soluzione».



http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scienza/grubrica.asp?ID_blog=38&ID_articolo=1096&ID_sezione=243&sezione=News

venerdì 2 gennaio 2009

Scoperto come cellule staminali cancro diventano immortali

Scoperto come cellule staminali cancro diventano immortali
Oncogeni aumentano la loro capacità riparazione danno genomico
postato 1 giorno fa da APCOM

Roma, 31 dic. (Apcom) - Gli scienziati del Campus Ifom-Ieo (Istituto Europeo di Oncologia) di Milano hanno scoperto come le cellule staminali del cancro diventano immortali e svelano, in una ricerca pubblicata domani su Nature, anche come eliminarle. Secondo i ricercatori, guidati da Pier Giuseppe Pelicci, Direttore Scientifico del Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell'Istituto Europeo di Oncologia e Professore di Patologia generale presso l'Università di Milano, sarebbero gli stessi oncogèni (i geni che innescano il processo tumorale) che impediscono alle staminali di invecchiare, e di diventare, mantenendo intatta la loro capacità di formare nuovo tessuto, tumorale, le vere responsabili dell'inguaribilità della malattia.

Questo risultato fornisce una rappresentazione nuova dei tumori. Essi sarebbero formati da rarissime cellule staminali - che proliferano poco - e da tante cellule "figlie" - che, invece, proliferano molto. Tutto questo, osservano i ricercatori, ha una grande implicazione per il trattamento dei tumori: mentre i farmaci attuali sono diretti contro le cellule tumorali "figlie", con questa scoperta, effettuata in collaborazione con l'Università degli Studi di Milano e l'Università degli Studi di Perugia, viene aperta una fase nuova della cura, mirata a colpire le cellule staminali "madri". Occorre, a questo punto, trovare le terapie che agiscano sulle staminali. Nuovi farmaci con questa funzione sono già in sperimentazione clinica sull'uomo: nei prossimi 5-10 anni potrebbero diventare disponibili, per alcune forme di tumore.

Gli scienziati sapevano già che, a differenza delle normali cellule staminali dei tessuti, che invecchiano e muoiono, le cellule staminali del cancro sono immortali e mantengono indefinitamente la loro capacità d'automantenersi e di generare cellule tumorali. Non erano, però, noti i meccanismi che permettono alle staminali del cancro di evadere il processo fisiologico dell'invecchiamento e della morte alimentando all'infinito il tumore.

Concentrandosi su questo problema il gruppo coordinato da Pelicci ha così scoperto che gli stessi geni responsabili (oncogèni) di uno specifico tipo di tumore - leucemia mieloide acuta - sono anche la causa diretta dell'immortalità delle cellule staminali. Questo effetto era del tutto inatteso, dicono gli scienziati, perché si sapeva che le cellule del nostro organismo si difendono dagli oncogèni attivando un processo d'invecchiamento precoce (senescenza) o addirittura di morte (apoptosi). Ma questa procedura di difesa, non si attiva nelle cellule staminali, che infatti, sopravvivono all'oncogène e non smettono di funzionare.

"Le normali cellule staminali dei nostri tessuti - spiega Andrea Viale, uno degli autori della scoperta - accumulano, nel tempo, danni a carico del loro genoma, smettono di funzionare e quindi muoiono. Nel caso delle staminali del cancro, sono gli oncogèni a renderle invece immortali aumentando le loro capacità di riparo del danno genomico. In questo modo le cellule staminali leucemiche non invecchiano e continuano ad alimentare, indefinitamente, la leucemia". Gli scienziati hanno scoperto che gli oncogèni facilitano il riparo del genoma (e quindi l'immortalità delle cellule staminali) provocando l'attivazione del gene p21, gene che, se presente, rallenta la proliferazione delle cellule staminali, lasciando loro più tempo per riparare il genoma danneggiato. In sostanza, le cellule staminali della leucemia non invecchiano perché proliferano poco. La prova della validità di questa osservazione è venuta quando Pelicci e colleghi hanno tolto il gene p21 dalle leucemie: private del gene le cellule staminali hanno cominciato a proliferare di più, accumulando danni al genoma e quindi a morire e, con loro, anche la leucemia!.

"La nostra scoperta - commenta Pelicci - definisce un metodo per eliminare le cellule staminali del cancro: bloccare i loro sistemi di riparazione del genoma. In questo modo, infatti, le cellule staminali del cancro accumuleranno danno genomico, invecchieranno e moriranno, come fanno normalmente le cellule staminali dei nostri tessuti. Nuovi farmaci che inibiscono il riparo del genoma stanno muovendo i primi passi della sperimentazione clinica nell'uomo. Sapremo nei prossimi 5-10 anni quanto saranno importanti nella cura dei tumori".




http://notizie.alice.it/notizie/scienze_e_tecnologie/2008/12_dicembre/31/scoperto_come_cellule_staminali_cancro_diventano_immortali,17409701.html

Ricercatori scoprono segreti della micidiale influenza del 1918

Ricercatori scoprono segreti della micidiale influenza del 1918


Reuters - Mar 30 Dic - 11.34
WASHINGTON (Reuters) - I ricercatori hanno trovato il modo di scoprire cosa ha reso così letale l'epidemia di influenza del 1918: un gruppo di tre geni che hanno permesso al virus di attaccare i polmoni provocando una polmonite.


Campioni dell'influenza del 1918 sono stati confrontati con i virus delle moderne influenze di stagione per arrivare alla scoperta dei tre che secondo loro potrebbe contribuire a sviluppare nuovi farmaci.

La scoperta è stata pubblicata oggi sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, e potrebbe anche individuare le mutazioni che trasformano una normale influenza in un'epidemia molto più pericolosa.

Yoshihiro Kawaoka della University of Wisconsin ed i colleghi delle Università di Kobe e Tokyo, in Giappone, hanno rilevato che mentre l'influenza normale si limita a colpire le vie respiratorie causando febbre, debolezza e dolori muscolari, alcuni malati gravi sviluppano la polmonite. A volte a causa di batteri, altre direttamente dall'influenza.

Durante l'epidemia del 1918, è emersa una nuova e più pericolosa forma di malattia.

"L'epidemia di influenza del 1918 è stata la più devastante diffusione infettiva nella storia dell'umanità, causando circa 50 milioni di morti in tutto il mondo", ha scritto il gruppo di Kawaoka.

Ha ucciso il 2,5% dei malati, rispetto al meno dell'1% delle epidemie annuali. E le autopsie hanno rilevato che molti morirono per polmonite.

A tenere in vita il virus, riprodurlo e propagarlo nei polmoni, dicono i ricercatori, sono stati tre geni, chiamati PA, PB1, e PB2, assieme ad una versione 1918 della nucleoproteina o gene NP.

Molti esperti concordano che prima o poi ci sarà un'altra epidemia di influenza, nessuno sa come anche se alcuni sospettano che si tratterà del virus H5N1 della febbre dei polli, che attraverso alcune mutazioni potrebbe diventare letale a livello globale, mentre sinora ha ucciso 247 delle 391 persone infettate dal 2003.

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Una provetta per un test del sangue





http://it.notizie.yahoo.com/4/20081230/r_t_rtrs_so_other/tso-oitlr-influenza1918-89ec962_1.html?printer=1

SCOPERTO IL SESTO SENSO

Sesto senso. I ciechi vedono
Pensava di non aver fatto nulla di eccezionale. Eppure, privato della vista a causa di un ictus, superava placidamente un percorso a ostacoli senza alcun genere di suggerimento. E no, non c’entrano gli altri sensi. O almeno, quelli finora scoperti.

Ad oggi, dopo l’esperimento di cui è stato protagonista T.N., la scienza ha ufficializzato l’esistenza del sesto senso. Una percezione che va oltre tatto, vista, udito, olfatto e gusto, e che, come nei fumetti e nei film, ci permette di “sentire” il mondo attorno a noi.

Ma T.N. non credeva di aver fatto una cosa così eclatante; era convinto di aver tracciato una linea retta lungo il corridoio. Insomma, “vedeva” gli ostacoli, li evitava istintivamente e non se ne rendeva neanche conto.

Gli scienziati dell´Harvard Medical School hanno deciso di studiare il soggetto dal momento in cui T.N. ha scoperto di avere la cosiddetta “vista dei ciechi”. Coglieva, ad esempio, le espressioni dei volti altrui. Eppure, per camminare usava il bastone apposito e chiedeva aiuto nel compiere i gesti quotidiani più semplici. E’ stato dopo l’esperimento che T.N. ha acquisito più fiducia in sé stesso e nelle sue capacità, avendo scoperto abilità sconosciute e impensate in grado di compensare abbondantemente quelle considerate “normali”.

Il nostro cervello è davvero capace di cose incredibili. Il problema – proprio dell´intera specie umana – è imparare a rifiutare l’idea di non poter compiere i miracoli solo perché li definiamo tali.

Scritta da: Maria Eleonora Pisu

La Redazione